Chi ha frequentato il Circeo negli anni del suo boom turistico si sarà sicuramente sentito consigliare, almeno una volta, di non fare il bagno nel giorno di San Pietro e Paolo, pena il rischio di morire affogato.
Si tratta di una credenza popolare, probabilmente nata negli anni subito precedenti al secondo conflitto mondiale, quando la lunga duna che univa il Circeo a Terracina, all’epoca incontaminata, veniva raggiunta dai primi turisti attirati dalla bonifica delle paludi.
Allora, come oggi, il 29 giugno segnava l’inizio delle ferie e il miglioramento delle condizioni economiche portava anche molti operai a raggiungere le “colonie estive” dove si recavano i ragazzi per passare qualche giorno al sole.
Capitava che, per imprudenza, qualcuno si buttasse in acqua appena mangiato oppure che tentasse l’ebrezza delle onde non essendo un buon nuotatore. In entrambi i casi queste “prime volte” terminavano in modo tragico.
Ancora solo 30 o 40 anni fa le cronache degli ultimi giorni di giugno riportavano spesso di disgrazie avvenute sul litorale laziale e il Circeo non faceva eccezione. Quello che era peculiare, all’epoca, era il fatto che il sanfeliciano non sapeva, in genere, nuotare. La cultura sanfeliciana, infatti, era prevalentemente contadina e il mare veniva visto con diffidenza, perchè da lì per secoli erano giunti pericoli di ogni sorta: pirati, invasori, razzie e, a volte, persino malattie. Non é strano quindi che San Felice sia l’unico luogo in cui prevedibili disgrazie dovute all’imprudenza siano state ricollegate ad una maledizione e a un tributo in vite umane che il mare pretendeva a inizio stagione: una sorta di sacrificio umano in cambio del benessere portato da quei turisti che erano, di fatto, le uniche vittime della loro avventatezza.
Oggi nessuno crede più a quella maledizione, ma i nonni sanfeliciani questa mattina di certo hanno avvicinato i loro nipoti e raccomandato loro di non fare il bagno a mare. L’ultimo, tenero segno di una cultura contadina ormai perduta.